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L'importazione dei kanji

I kanji ["caratteri cinesi"] sono i caratteri usati per scrivere la lingua cinese, importati in Giappone con lievi adattamenti a partire dal periodo Yamato.

I kanji nella lingua cinese

Oracolo inciso su osso
I più antichi esempi di scrittura cinese a noi giunti sono oracoli incisi su ossa (dinastia Shang, XIII - XII secolo a.C.)

Solitamente noi occidentali siamo abituati a considerare gli ideogrammi come un metodo di scrittura primitivo, qualcosa che veniva usato dagli antici egizi ma che, con il progresso della civiltà, è stato sostituito dalla scrittura fonetica, molto più razionale e facile da imparare. Per quanto riguarda il loro utilizzo nella lingua cinese dobbiamo però osservare che:

  • i vocaboli della lingua cinese sono indeclinabili e generalmente monosillabici, o composti da più monosillabi che comunque conservano anche isolatamente un preciso valore semantico. In generale ogni termine-monosillabo assolve a diverse funzioni grammaticali, cioè corrisponde a diverse parti del discorso legate da un significato comune; ad esempio 到 (dao) viene usato sia come verbo (arrivare, giungere) che come preposizione (fino a): la distinzione tra le varie funzioni è operata in base alla posizione che il termine occupa all'interno della frase. Risulta quindi abbastanza naturale associare ad ogni termine-monosillabo un diverso ideogramma (che quindi viene ad assumere, oltre ad un significato, anche una ben precisa pronuncia). Sfumature di significato che in altre lingue vengono rese con la flessione del vocabolo (il singolare e il plurale dei sostantivi, i diversi tempi dei verbi) sono rese in cinese aggiungendo opportune particelle, anch'esse facilmente associabili a ideogrammi specifici;
  • a causa della presenza di molti termini monosillabici, in cinese sono frequentissimi gli omofoni (parole di pronuncia uguale o simile che hanno significato diverso); nella lingua scritta questi possono essere facilmente distinti associandoli a ideogrammi diversi;
  • come la Cina attuale, anche l'impero cinese antico era un paese immenso e comprendeva popolazioni che parlavano lingue notevolmente diverse (anche se basate su una comune struttura grammaticale). La scrittura ideografica costituiva quindi uno strumento molto utile per la comprensione reciproca: un proclama imperiale scritto nella capitale veniva letto correttamente anche all'estrema periferia dell'Impero, pur venendo pronunciato in modo diverso; una scrittura fonetica avrebbe invece reso necessarie numerose traduzioni.

Se l'Europa adottasse una scrittura ideografica, questa potrebbe essere in gran parte comune. Posto ad esempio che 我 significhi io, 喝 voglia dire bere e 水 acqua, la frase "我喝水" verrebbe letta "Io bevo acqua" da un italiano, "I drink water" da un inglese, "Je bois (de l')eau" da un francese, ecc., cioè verrebbe facilmente compresa in ogni lingua che abbia una struttura della frase simile all'italiano (soggetto + verbo + complemento oggetto); sorgerebbe quindi una difficoltà con il tedesco, che pone il verbo alla fine della frase. Naturalmente questo esempio nasconde la difficoltà di rappresentare per mezzo di ideogrammi la flessione dei termini: come si potrebbe rendere la differenza tra bevo, bevi, beviamo, bevevo, berrò, bevuto, bevendo, ecc.? (come abbiamo detto, questo problema non esiste in cinese).

Questi vantaggi della scrittura ideografica sono controbilanciati dalla sua complessità: per potere leggere o scrivere in cinese è necessario memorizzare migliaia di ideogrammi, compito che richiede lunghi anni di studio. Questo sembra un prezzo troppo alto da pagare a noi, che siamo abituati a considerare la capacità di leggere e scrivere come uno dei requisiti fondamentali nell'istruzione di ogni persona; forse era un ostacolo meno grave per una società antica in cui comunque l'alfabetizzazione era riservata ad una ristretta élite di intellettuali e burocrati.

Tripode di Zhongshan
Iscrizione su tripode
Tripode di bronzo cinese facente parte del corredo funerario del principe di Zhongshan (III secolo a.C.). Una parte dell'iscrizione incisa sulla superficie del tripode è illustrata nel riquadro a destra: come si vede, i caratteri usati all'epoca erano alquanto diversi dai kanji importati in Giappone parecchi secoli dopo

In che senso i caratteri cinesi sono ideogrammi, cioè rappresentazioni grafiche di concetti? Da questo punto di vista si suole dividere i kanji in sei categorie, a seconda del loro processo di formazione (categorie 1 - 4) o del loro utilizzo (categorie 5 e 6):

  1. caratteri pittografici, cioè rappresentazioni dirette di oggetti materiali; ad esempio:
    montagna sole (e, per estensione, giorno)
    fiume luna (e, per estensione, mese)
    bocca donna (rappresentata in ginocchio)
    bambino albero
    risaia, campo coltivato occhio
    uomo pesce
    cancello mano
    acqua (la forma originale era simile a 川 "fiume");
    nel valutare la somiglianza di questi caratteri con gli oggetti che essi rappresentano bisogna tenere conto che i kanji sono il risultato di una tradizione plurimillenaria, nel corso della quale sono stati progressivamente stilizzati e semplificati anche al fine di renderne più spedita la scrittura: non deve quindi stupire che essi siano rappresentazioni estremamente schematiche e a volte poco evidenti. In particolare si assiste alla tendenza a sostituire linee curve con linee dritte, come nei seguenti caratteri:
    3 kanji
  2. caratteri ideografici in senso stretto, cioè rappresentazioni simboliche di concetti o idee astratte; ad esempio:
    uno due tre
    sopra sotto in mezzo
    base, fondamento, origine (il trattino alla base dell'albero 木 ne indica la radice);
  3. ideogrammi composti ottenuti combinando insieme due o più caratteri per ottenere un significato derivato; ad esempio:
    donna 女 + bambino 子 = piacere (alle donne piacciono i bambini)
    occhio 目 + le gambe di un uomo = vedere (ciò che l'uomo può fare con l'occhio)
    albero 木 + albero 木 + albero 木 = foresta
    uomo (forma semplificata di 人) + albero 木 = riposo, sosta
  4. caratteri fonetico-semantici formati dalla combinazione di due caratteri di cui uno indica la pronuncia del termine e l'altro la sua area di significato. In molti casi (ma non sempre) i kanji di questa categoria hanno i due elementi costituenti accostati in senso orizzontale, con l'elemento semantico a sinistra e quello fonetico a destra. Ad esempio i seguenti caratteri vengono tutti pronunciati haku ed hanno come elemento fonetico comune l'ideogramma 白 (che si legge appunto haku); il loro significato viene indicato (anche se in termini molto vaghi e generici) dall'elemento di sinistra:
    alloggiare, passare la notte: l'elemento semantico a sinistra è una forma semplificata del carattere 水 "acqua" (infatti originariamente il termine si riferiva ad una nave che trovava rifugio nel porto per passarvi la notte)
    avvicinarsi, piombare su, incalzare: l'elemento semantico significa "avanzare", "procedere"
    battere le mani e, per estensione, ritmo: l'elemento semantico è una forma semplificata del carattere 手 "mano"
    quercia: l'elemento semantico è il carattere 木 "albero".
    Sembra quasi che gli antichi cinesi, di fronte al problema di trovare ideogrammi adatti a rappresentare una serie di termini omofoni di significato diverso, lo abbiano risolto inserendo in tutti un carattere con la stessa pronuncia che fosse semplice da scrivere e facile da ricordare (白 significa "bianco" e quindi è un kanji di uso molto comune) e distinguendo i diversi termini con l'aggiunta di un simbolo che accennasse al loro significato. Questo meccanismo di formazione è molto comune e circa il 90% di tutti i kanji appartengono a questa categoria.
    Nel caso sopra riportato non sembra che il significato proprio del carattere usato come elemento fonetico ("bianco") abbia nulla a che fare con il significato dei caratteri derivati. In altri casi anche l'elemento fonetico è stato scelto in modo da suggerire un senso particolare, come ad esempio nel carattere
    mon (chiedere, domandare): l'elemento semantico è il carattere &#x53e3 "bocca" (che indica l'area di significato "parola", "discorso") e l'elemento fonetico è 門 mon ("cancello"); inoltre "cancello" può dare anche l'idea di "nascondere", quindi 問 può anche essere interpretato come "chiedere (con la bocca) ciò che è nascosto (dietro al cancello)".
    (N.B.: tutte le pronunce indicate nei precedenti esempi sono le pronunce on giapponesi e non le pronunce cinesi attuali);
  5. caratteri usati con un significato traslato o esteso rispetto all'originale; ad esempio:
    originariamente significa musica, ma viene anche usato nel senso di piacevole, dilettevole (la musica come diletto per eccellenza)
  6. caratteri "presi in prestito" per un significato differente dall'originale o usati unicamente per il loro valore fonetico; ad esempio:
    originariamente rappresentava un fascio di oggetti (la linea verticale) legati insieme (linea orizzontale) e quindi esprimeva il concetto di "fascio", "mazzo", "gruppo", ma attualmente viene usato per indicare il numero dieci.

L'adozione dei kanji in Giappone

Se, come abbiamo visto, caratteri di tipo ideografico sono molto adatti per la scrittura del cinese, non si può dire altrettanto per il giapponese che è una lingua polisillabica e flessiva (i temi verbali si coniugano e le parole vengono modificate attraverso l'aggiunta di desinenze o particelle posposte). Per una lingua simile è molto più adatto un alfabeto di tipo fonetico e sembra quindi strano che i giapponesi del periodo Nara abbiano pensato di adottare l'alfabeto cinese.
Occorre però notare che l'invenzione della scrittura è un evento molto più raro di quanto si possa pensare. Tutti i tipi di alfabeto attualmente usati nel mondo derivano da due soli tipi di scrittura: i geroglifici egizi (che hanno dato origine all'alfabeto fenicio, greco e latino e quindi a tutti i tipi di alfabeto usati per le lingue occidentali) e gli ideogrammi cinesi (utilizzati con varie modifiche in molti paesi dell'Estremo Oriente); l'unico altro tipo di scrittura sorto indipendentemente da queste (il cuneiforme assiro-babilonese) si è estinto. Quindi i giapponesi hanno utilizzato semplicemente l'unico tipo di scrittura che avevano a disposizione.

sûtra
Un esempio di calligrafia cinese dell'inizio del VII secolo d.C. (da una copia di un sûtra compilato per ordine del Principe Imperiale Yang Guang della dinastia Sui): già a quest'epoca la forma dei kanji era praticamente uguale a quella ancora oggi usata in Giappone

Bisogna anche tener conto del fatto che ciò che fu importato in Giappone (a partire forse dal V secolo d.C.) non furono i caratteri cinesi in quanto tali, ma la lingua cinese nel suo complesso, o più precisamente una serie di libri e documenti scritti in lingua cinese. Per molto tempo i giapponesi non furono affatto interessati a scrivere nella propria lingua e per loro i caratteri cinesi erano unicamente il mezzo necessario per poter accedere alla vastissima e millenaria letteratura di un paese così più progredito del proprio come la Cina. Il compito di leggere e tradurre i libri cinesi fu inizialmente assolto da letterati stranieri (soprattutto coreani); in seguito, a partire forse dalla seconda metà del VI secolo, la crescente importanza culturale della lingua cinese (soprattutto in quanto indispensabile alla comprensione dei testi buddhisti) spinse anche molti giapponesi a studiarla. Questa crescente dimestichezza con la lingua cinese ha fatto sì che, quando anche i giapponesi hanno sentito l'esigenza di produrre documenti scritti, abbiano cominciato a farlo usando non la propria lingua (che era priva di un sistema di scrittura) ma la lingua cinese, che ormai per loro era la lingua della cultura; ciò avvenne probabilmente tra il VI e il VII secolo, anche se i più antichi documenti in cinese scritti da giapponesi che siano giunti sino a noi sono dell'inizio dell'VIII secolo (vedi ad esempio la sezione Cultura e letteratura del periodo Nara).

Solo successivamente i giapponesi hanno pensato che i kanji potessero essere usati anche per scrivere direttamente in giapponese anche se, a causa della grande differenza di struttura grammaticale tra le due lingue, ciò richiese un processo di adattamento lungo e laborioso. Anche quando, dopo una serie di tentativi abbandonati, venne alla fine trovato un metodo soddisfacente (anche se notevolmente complesso) per la scrittura della lingua nativa, i giapponesi continuarono a considerare il cinese come la lingua della cultura per eccellenza e ad usarla nelle opere erudite e nei documenti ufficiali. In altre parole la letteratura giapponese, fino a tempi molto recenti, è in realtà una letteratura bilingue, scritta in parte in cinese. Si può quindi paragonare il ruolo che il cinese ha svolto in Giappone a quello del latino nell'Europa medioevale e rinascimentale.

Nell'adattare i caratteri cinesi alla lingua giapponese era possibile seguire due criteri diversi:

  • utilizzare i caratteri per il loro valore semantico, associando ad essi il vocabolo giapponese avente lo stesso significato del termine cinese e quindi adottando anche per il giapponese una scrittura di tipo ideografico;
  • oppure adottare solo il suono di certi caratteri (trascurando il loro significato) e produrre quindi una scrittura di tipo fonetico;

poiché la lingua cinese è molto diversa da quella giapponese (almeno quanto lo è dall'italiano), i due sistemi sono del tutto alternativi.

Per un periodo di tempo abbastanza lungo i giapponesi hanno oscillato tra le due soluzioni, mescolando in modi diversi (e spesso senza una logica precisa) uso semantico e uso fonetico dei caratteri e a volte ricorrendo a sistemi ancora più complessi.
Un metodo spesso utilizzato nel periodo Nara è detto shakukun ["prestito di significato"] e consisteva nell'utilizzare un carattere non solo per rappresentare la parola giapponese che ne era la traduzione, ma anche per gli omofoni di questa in giapponese: ad esempio il carattere 張 (che in cinese veniva letto approssimativamente chô e significava "tirare, stirare, estendere") poteva venire usato non solo per rappresentare il verbo giapponese corrispondente haru ["tirare, estendere"] ma anche per il sostantivo giapponese omofono haru ["primavera"]; il carattere veniva quindi usato per una parola che non ha nulla a che vedere né con il significato né con la pronuncia cinese dell'ideogramma.

Per questo motivo i primi documenti scritti in giapponese (come il Kojiki) presentano spesso problemi di interpretazione di non semplice soluzione.

Il kanbun kundoku

Il processo di adozione dei kanji nella scrittura della lingua giapponese è solo una parte di un processo più vasto e complesso di assorbimento di elementi cinesi (soprattutto da un punto di vista lessicale) nella lingua giapponese autoctona; questo processo è durato per secoli ed è stato così profondo che si può dire che la lingua giapponese attuale sia in realtà un ibrido tra cinese e giapponese (un po' come l'inglese attuale è un ibrido tra una lingua di ceppo germanico e una lingua neolatina).

In questo processo ha avuto un ruolo determinante la formazione di una serie di lingue letterarie (cioè non parlate ma utilizzate solamente nella scrittura di opere erudite) che erano una mescolanza deliberata di cinese e giapponese in misure varie, che andavano dal cosiddetto hentai kanbun [lett. "scrittura cinese anomala"] (che consisteva in un cinese in cui erano infiltrati elementi giapponesi) al kanbun kundoku, in cui il contributo del giapponese era più pesante e in particolare i kanji venivano letti non secondo la pronuncia cinese ma usando il termine giapponese che ne era la traduzione (procedimento chiamato appunto kundoku, cioè "lettura kun").

Probabilmente questi linguaggi misti nacquero dalla consuetudine di leggere secondo la lettura kun testi cinesi originali (come abbiamo visto con l'esempio di "Io bevo acqua", la scrittura ideografica si presta a questo uso). Anche in questo modo però la corretta interpretazione di un testo cinese richiedeva, oltre naturalmente alla conoscenza del significato dei caratteri, anche una notevole padronanza della grammatica e della sintassi cinese. Per facilitare il kundoku di testi buddhisti in cinese, a partire dal periodo Nara i monaci presero l'abitudine di integrare i testi con segni esplicativi (kunten) che indicassero come bisognava modificare l'ordine delle parole e quali particelle e suffissi aggiungere per poter leggere la frase in giapponese. Con il tempo questo sistema fu sviluppato e standardizzato e divenne un linguaggio letterario indipendente (quell'ibrido tra cinese e giapponese chiamato appunto kanbun kundoku) che aveva regole proprie e il cui apprendimento faceva parte del curriculum scolastico di ogni erudito.
Bisogna anche notare che l'uso del kanbun kundoku non eliminò quello del vero cinese, che continuò anch'esso ad essere usato in una produzione letteraria specifica, spesso da parte degli stessi autori che scrivevano anche in kanbun kundoku; sembra quindi che lo sviluppo e la codifica del kanbun kundoku non siano nati da una scarsa familiarità con la lingua cinese corretta, ma dal desiderio di avere una lingua letteraria più vicina a quella indigena, seppur nobilitata da un forte contributo cinese.

Anche quando l'invenzione dei kana rese possibile la scrittura fonetica del giapponese parlato, questo fu utilizzato solamente per la scrittura di lettere private, diari, poesie e romanzi (a questo proposito vedi la sezione Cultura e letteratura del periodo Heian) mentre per gli atti ufficiali e le opere erudite veniva usato il kanbun kundoku, in cui furono introdotti i kana come segni ausiliari. Questo sdoppiamento tra lingua scritta e lingua parlata si è mantenuto fino alla metà del XIX secolo; solo dopo la restaurazione Meiji le due lingue sono state unificate ed è nato il giapponese moderno, la cui scrittura discende direttamente dal kanbun kundoku.
La pratica diffusa del kanbun kundoku non solo ha reso familiari i kanji come metodo di scrittura, ma ha anche determinato la progressiva e sempre più estesa introduzione nel giapponese di termini di origine cinese. Per la scrittura di questi termini mantenere la notazione ideografica originale era naturale e in qualche modo persino necessario, in quanto si poneva per essi lo stesso problema di distinguere tra omofoni di significato diverso che esisteva nella lingua originale. Anzi si può dire che in giapponese il problema della distinzione tra omofoni era ancora più grave che nel cinese stesso, in quanto nella pronuncia giapponese vengono perse le sottili distinzioni di intonazione legate al complesso sistema di toni del cinese e quindi la distinzione per mezzo di ideogrammi è ancora più necessaria.
Il sistema di toni è ancora oggi uno dei principali ostacoli nell'apprendimento della corretta pronuncia del cinese. Ad esempio in cinese moderno la parola ma può significare mamma, lino, cavallo o bestemmiare a seconda del tono con cui è pronunciata: per una persona non in grado di cogliere queste sottigliezze fonetiche (assenti tanto dall'italiano quanto dal giapponese) i quattro termini diventano omofoni.

Autore: Mario Carpino